La storia dei voucher lavoro, minimizzata dai media italiani, è una delle più grandi vergogne del governo italiano ed un’ulteriore e pericolosa deriva antipolitica, demagogica e populista.
Ricapitolando un po’ la vicenda, tanto per sapere di che cosa parliamo, i c.d. “voucher lavoro” o “buoni lavoro”, sono stati introdotti, per la prima volta in Italia, nel 2003, dal Governo Berlusconi che, in attuazione della delega contenuta nella Legge Biagi (Legge 14 febbraio 2003, n.30), con il D.lgs n.273/2003 ha definito e disciplinato le “prestazioni occasionali di tipo accessorio”, con lo scopo dichiarato di regolamentare alcune attività lavorative “occasionali”, spesso svolte al di fuori della legalità e non facilmente riconducibili alle tipologie contrattuali tipiche del lavoro subordinato o autonomo, al fine di assicurare ai prestatori di lavoro occasionali forme minime di tutela previdenziale ed assicurativa.
I limiti di utilizzabilità, per tipologia di lavoro eseguito, furono ampliati con la Legge n.33/2009, sempre dal Governo Berlusconi e poi, ulteriormente ampliati, determinando una totale liberalizzazione di utilizzo (per settori ed ambiti diversi) dal Governo Monti, con la Riforma Fornero (Legge 28 giugno 2012, n.92) e dal Governo Renzi, con il c.d. Jobs Act (legge 10 dicembre 2014, n. 183) che, da ultimo, ha innalzato i limiti di utilizzabilità individuali da € 5.000 a € 7.000 annui e ha eliminato dalla legge la dicitura “di natura meramente occasionale”, rendendo più duttile lo strumento.
La CGIL, che nel mese di luglio del 2016 aveva raccolto (ahimè!) più di tre milioni di firme, ha chiesto (ed ottenuto) un referendum abrogativo, allo scopo di abolire completamente lo strumento dei voucher.
La motivazione politica di un simile impegno si basava, sempre secondo la CGIL, sulla circostanza, apoditticamente declamata, che la larga diffusione dei voucher avrebbe comportato una sostanziale elusione ed evasione delle norme fiscali e previdenziali, a tutela dei lavoratori.
Ora, non bisogna essere un “fulmine di guerra” per capire che –in un panorama legislativo e burocratico del mondo del lavoro, come quello italiano– l’abolizione dell’unico strumento che poteva, in qualche modo, favorire al medesimo tempo l’emersione dal lavoro nero ed il rilancio dell’economia, comporterà un aumento del lavoro irregolare ed una sostanziale diminuzione delle garanzie per i lavoratori.
Vi è da dire, infatti, che il problema dell’uso irregolare dei voucher è stato affrontato da una norma contenuta nel Jobs Act, che ha previsto l’obbligo di comunicare l’inizio della prestazione alla Direzione Territoriale del lavoro competente, in modo preventivo e per via telematica e che, tale procedura è stata introdotta operativamente dal D.lgs n.185/2016, a partire dal mese di ottobre 2016.
È evidente, pertanto, che gli obiettivi “politici” propugnati dalla CGIL nel luglio 2016 (quando sono state raccolte le firme per il referendum abrogativo) siano divenuti vuoti ed inattuali a partire dall’ottobre 2016.
Il Governo però, piuttosto che spiegare agli italiani l’effettiva portare strategica dei voucher, in un quadro di mercato del lavoro depresso, ha pensato bene di cedere al canto delle “sirene rosse” ed alla facile e spicciola demagogia e proporre una norma che abolisca completamente i voucher, tanto per evitare di misurarsi nuovamente con l’elettorato.
James Freeman Clarke (politico americano del XIX secolo) sosteneva che “un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista guarda alla prossima generazione. Un politico pensa al successo del suo partito; lo statista a quello del suo Paese”.
Oggi, ancora una volta, abbiamo la triste riprova che in Italia non solo non abbiamo statisti ma non abbiamo neanche politici.